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mercoledì 22 febbraio 2012

Casa Manno




LA CASA MANNO


La casa dove viveva la famiglia di Giuseppe Manno, abbandonata da decenni, si è degradata col tempo. Negli ultimi decenni del novecento è stata venduta all'impresa Merella che dopo numerosi tentativi andati a vuoto per avere una licenza onde demolire e ricostruire per rivendere, ha ceduto l'immobile al comune di Alghero. Sono passati altri anni e infine il comune di Alghero ha deciso di demolire il caseggiato ormai irrimediabilmente compromesso e ha adattato l'edificio adiacente per ottenere i locali dove collocare un museo dedicato allo storico e politico algherese. A questo punto mi sembra inopportuno chiamare questo edificio "Casa Manno". In maniera molto più corretta poteva essere denominato "Museo Manno" con buona pace di Giuseppe che sicuramente non sarà molto contento di come i suoi concittadini hanno trattato la sua dimora. 
Un'operazione ancora più adeguata sarebbe stata quella di ricostruire il manufatto così come era, mantenendo un esempio di casa settecentesca dove il visitatore avrebbe potuto riconoscere i vari ambienti all'interno dei quali potevano ben trovare collocazione ritratti e documenti. Per le persone interessate avrebbe avuto molto più senso l'accesso ad un luogo con almeno la fisionomia dell'antica abitazione dove  la visita sarebbe potuta essere più partecipata e meno fredda.


Casa Manno prima della demolizione


Parliamo della casa Manno. C'era una volta un edificio diroccato e c'era una volta una targa che indicava la casa di Giuseppe Manno. La targa è sparita, l'edificio, lasciato al suo naturale degrado, è parzialmente crollato ed infine è stato demolito. Adesso è sorta la Casa Manno. In quanto a falsità non c'è che da fare i complimenti.

Nella foto si vede il terreno dove sorgeva la casa Manno che per il momento è diventato una piazzetta, e forse tra poco sarà colonizzato da tavolini e sedie. 



 Lavori eseguiti nell'area dove sorgeva la casa Manno in vista dell'inaugurazione da parte del Presidente Napolitano il 21 febbraio 2012.
Le foto sono state scattate l'8 febbraio 2012



Resti di muro della Casa Manno. Qui si vede anche un antico ingresso.






Al posto della casa della famiglia di Giuseppe Manno oggi sorge una piazzetta che ben presto verrà probabilmente arredata con sedie e tavoli. In realtà è già previsto un altro corpo di fabbrica da addossare alla parete cieca antistante la piazzetta.

Michelino Chessa nel suo libro "Racconti Algheresi" (2° volume, 1977, pag. 84) parla diffusamente della costruzione. Riporto le sue parole
" La casa in cui  nacque Giuseppe Manno è ridotta a un rudere, il Comune non si è mai interessato di restaurarla come bene di interesse storico. Lo stabile, ricostruito secondo lo stile originario si sarebbe potuto adibire a uffici comunali"
"Un'altra soluzione d'impiego della casa di Giuseppe Manno, sarebbe potuta essere quella di costruire una tettoia storico-artistica, sfruttando le quattro vecchie arcate ad imitazione delle tettoie artistiche che si trovano nelle città toscane. Altra ipotesi di impiego sarebbe potuta essere adibire a scuola materna il fabbricato in modo da servire il centro storico di un servizio sociale di primaria importanza."
"Conobbi la casa di Giuseppe Manno quando era abitata ed aveva la targa marmorea che ricordava la data di nascita e di morte dell'illustre algherese."
"Dopo i bombardamenti subiti dalla città la casa di Manno rimase disabitata e cominciò a deteriorarsi sino ad essere irriconoscibile, cioè come la vediamo oggi (nel 1977).




Fotografia pubblicata nel giornale Alghero Cronache nel 1974

Se Michelino Chessa avesse visto lo scempio che ne hanno fatto gli amministratori del 2000 forse avrebbe pensato di loro peggio di quanto ha fatto nel 1977. Ma sentiamo che opinione aveva allora degli amministratori locali.
"Per alcuni amministratori queste cose sono eresie, per loro i valori culturali non hanno alcun significato perché non li hanno mai conosciuti.
Dai meteci e uomini rozzi sino al midollo non ci si può aspettare nulla di buono, essi non hanno compreso né comprenderanno mai cosa sia lo sviluppo civile di una città e come si deve vivere in una società evoluta."



martedì 14 febbraio 2012

Il lupo mannaro

Il Lupo Mannaro ad Alghero viene definito Lu Prubunaru. Come si sa, Lu Prubunaru esce nelle notti di luna piena e guai ad incontrarlo.
Pensandoci su mi sono fatta una convinzione. In vari paesi della Sardegna si diceva che c'erano alcune Mamas che portavano via i bambini imprudenti che non rispettavano le regole. Per esempio nei mesi estivi i bambini non potevano uscire di casa nelle ore pomeridiane, altrimenti Sa Mama de su Sole li avrebbe portati via. Guai ad uscire nelle giornate di vento forte, perché Sa Mama de su 'Entu (vento) li avrebbe trascinati lontano; Sa mama de su 'Randine (grandine) rapiva i bambini che uscivano quando grandinava, e così via.
Secondo me non è casuale che il Lupo Mannaro si incontri nelle notti di luna piena. Infatti in quelle notti, grazie alla luce della luna, si può anche uscire di notte per strada. Ma chi lo fa corre il rischio di incontrare un essere terribile, Lu Prubunaru.
Questa è solo una mia ipotesi ma mi sembra abbastanza plausibile.

Il Lupo Mannaro faceva davvero molta paura anche perché si diceva che, preso dal dolore della sua malattia, lu Prubunaru vagava per la città ululando. Ricordo che negli anni '50 capitava spesso di sentire dei cani lamentarsi nel cuore della notte. Infatti per le strade circolavano numerosi cani randagi che lanciavano lugubri e terrificanti ululati. Quando nel buio della mia camera sentivo questi versi mi veniva la pelle d'oca poiché temevo che ad aggirarsi per le strade non fossero dei semplici cani, ma il terribile Prubunaru e mi nascondevo sotto le lenzuola perché pensavo che potesse addirittura entrare a casa.

Si diceva che lu Prubunaru fosse un uomo malato, costretto a trascinarsi curvo per i dolori lancinanti che provava durante le notti di luna piena.
Ad Alghero non mancano persone che giurano di averlo visto e dicono di sapere anche chi fosse quel disgraziato.

lunedì 13 febbraio 2012

L'accabadora


Mi è capitato tra le mani un libro di  Gino Cabiddu, " Usi costumi riti tradizioni popolari della Trexenta" edito nel 1965 dai Fratelli Fossataro di Cagliari e tra le varie informazioni ho trovato una parte che riguarda l'accabadora. 
L'autore ritiene che la figura di questa donna possa essere frutto di leggenda o comunque sia "qualcosa di diverso da ciò che si vuole dare a intendere". 
Aggiunge che l'accabadora sarda potrebbe essere una donna ritenuta dotata di speciali virtù che, "togliendo dal collo degli agonizzanti gli amuleti sacri, come scapolari, medagliette di santi o patenas" affrettava la separazione dell'anima dal corpo di persone in dolorosa agonia.

L'autore riporta in seguito lo scritto di Giuseppe della Maria apparso nel Nuovo Bullettino Bibliografico Sardo. AnnoV N° 28 -Cagliari - 1960.
Lo studioso dice che William Smith offre la prima testimonianza scritta di accabadora intorno al 1826-27 quando dice che in Barbagia l'accabadora aiutava una persona a morire soffocandola. Aggiunge che l'usanza venne proibita dal Padre gesuita Giovanni Vassallo che fu in Sardegna dal 1726 al 1775, anno della sua morte.
Un'altra testimonianza ci viene dal canonico Angius che nel 1834 afferma che sas accabadoras erano "donnicciuole che abbreviavano le pene di una morte stentata dando un colpo sul petto, con una specie di mazza, sa mazzocca".

Nell'Ottocento vari altri autori si inserirono nella discussione sull'esistenza o meno di tale personaggio: Della Marmora, Tyndal, Bresciani, Tennant, De Gregory e Domenech.  

Giuseppe della Maria afferma che secondo il Padre Angius agli inizi del 1800 era in uso a Cagliari la pratica di accelerare la fine degli agonizzanti con due procedimenti:
1. Togliere dalla stanza croci, simulacri, immagini e privare il malato di scapolari sacri in modo da accelerare il distacco dell'anima dal corpo.
2. Se l'intevento non ha efficacia, collocare sotto la testa del malato il giogo di un aratro o di un carro (su giuali).
Pare che il giogo fosse utilizzato anche nelle Barbagie e nel Nuorese.
Lo studioso afferma che non ha avuto riscontri sulla presenza di accabadoras nella Trexenta ma è venuto a sapere che certe donne vengono chiamate presso gli agonizzanti che prolungano la sofferenza. Tali donne tolgono di dosso al malato ogni amuleto sacro, levano da sotto il guanciale libretti di preghiere e ogni oggetto sacro.
Le donne accompagnano i loro gesti con versetti magici, forse scongiuri o parole propiziatorie per favorire la liberazione dell'anima. Naturalmente queste formule non si conoscono in quanto non vengono rivelate.



A sostegno della esistenza della donna che poneva fine alle sofferenze degli agonizzanti Emmanuel Domenech (n. 1826, m.1886), autore di "Pastori e banditi", dice che dopo aver curato i malati con tutta la devozione possibile, i sardi, non potevano rassegnarsi al prolungarsi delle sofferenze di un'agonia e per farle cessare al più presto ricorrevano all'ausilio delle accabadoras.

Il  fatto che segue fu raccontato da una signora a un vecchio prete dell'Università di Sassari.
"Quando mia nonna aveva diciotto anni cadde gravemente malata. Il Curato della Parrocchia venne a darle l'Estrema Unzione, e quando finì rimase presso il suo letto. In quel momento entrò una persona, e dalla porta aperta vide "s'accabadora" che nell'anticamera attendeva di essere chiamata per abbreviare le sofferenze della giovinetta. A quella vista, l'ammalata provò un tale terrore, che ne ebbe una crisi, seguita da abbondante traspirazione onde guarì quasi subito".

(Commento) A voler essere precisi la ragazza ha visto dalla porta aperta una persona che forse era una "accabadora", oppure era una donna chiamata solo per portar via dalla stanza quegli oggetti sacri di cui si è parlato. Non mi sembra una testimonianza inequivocabile che prova l'esistenza dell'accabadora. Oltretutto chi parla non è la protagonista del fatto, ma una nipote che lo riferisce dopo molti anni.

Giuseppe della Maria parla di un altro evento raccontato dal Canonico Dottor Pietro Raimondo Calvisi.
"A Bitti, intorno al 1906 sono stato testimone del seguente fatto. Nei pressi della casa mia, un bimbo era in agonia da oltre tre giorni, quando si presentò alla madre del morente una vecchia dall'aspetto duro ed energico, alta e segaligna. La vecchia si offrì decisa, alla madre, per abbreviare l'agonia del piccolo sofferente.
La madre non si stupì della cosa, ma rifiutò dicendo: "Cherzo que si guadagnet su Chelu." (Voglio che si guadagni il Cielo)
Da queste parole ebbi la chiara conferma che la sinistra vecchia fosse una superstite accabadora".

(Commento) Questa testimonianza potrebbe essere più decisiva ai fini di stabilire l'esistenza della donna che dà la morte, anche se la conferma di cui parla il Canonico Calvisi non deriva da un chiarimento senza possibilità di equivoci con la madre, ma da una sua interpretazione.

sabato 11 febbraio 2012

Il carnevale in Sardegna




1. CARNEVALE IN SARDEGNA

2. LA SARTIGLIA


1. CARNEVALE IN SARDEGNA

Le notizie qui riportate sono tratte da una ricerca effettuata da alunni di seconda elementare di una scuola di Alghero nell'anno scolastico 2003-2004
I disegni appartengono allo stesso lavoro e sono stati colorati con Photoshop.


Chi desidera utilizzare testo e immagini è cortesemente invitato a citare l'autrice e il sito.





IL CARNEVALE AL TEMPO DEI NONNI

IL CARNEVALE AD ALGHERO


Irma T.

Nonno materno quando era giovane usava vestirsi con il domino e festeggiava andando in giro per le piazze di Alghero oppure a teatro. Le persone mascherate si riunivano nella piazza principale, Piazza Civica per ballare e festeggiare con coriandoli, stelle filanti e lancio di confetti.
Nonna materna, nata alla Maddalena, da piccola usava vestirsi con il vestito di Pieretta (il femminile di Pierrot). Festeggiava ballando e cantando, e mangiando frittelle a volontà.


Nevio R.

Quando i miei nonni erano giovani, il Carnevale era molto semplice.
La mia mamma mi ha detto di sapere dai loro racconti che solitamente si travestivano con abiti fatti in casa.
I maschi spesso indossavano il domino o si vestivano da donne e uscivano in giro per le strade per fare scherzi. Qualcuno, qualche volta, portava con sé la chitarra per intonare delle canzoni
In via eccezionale poi (soprattutto le ragazze) partecipavano mascherate al veglione che si teneva nel teatro di Alghero.

Sarah L.

Prima a carnevale ci si vestiva con i vestiti vecchi. Mia nonna si vestiva da contadinella. Poi si scendeva in strada e si giocava con gli amici mascherati. Solo chi poteva andava a Teatro a festeggiare. Si ballava, si faceva la pentolaccia e si facevano tante frittelle. Si stava insieme per tante ore per divertirsi e giocare.

Giulia M.

La mia nonna Rina mi ha raccontato che quando era piccola festeggiava il Carnevale con le sue sorelle e si divertivano tanto ad indossare gli abiti dei genitori. Preparavano in un ribel (insalatiera grandissima) tante frittelle da poterne mangiare per una settimana intera.
Mentre il mio nonno Antonio mi ha raccontato che il suo carnevale lo festeggiava con i suoi amici ed andavano di casa in casa a chiedere le frittelle vestiti da domino o con altri vestiti di maschera.


Pierpaolo U.

Mia nonna abitava a Surigheddu e mia bisnonna Mariantonia faceva le frittelle e le insegnava anche alle figlie.
Per mia nonna era una gran festa perché si divertiva molto ed era felice anche perché era un momento fatto di gioco e di scherzi.
Lei e le sue sorelle si vestivano con gli abiti dei genitori, e ridevano tanto!

Ecco come era il carnevale di mia nonna Franca.


Enrico C.

Mia nonna Pina, da piccola, festeggiava il carnevale quasi come noi, solo che era un carnevale povero.
Lei per mascherarsi si metteva il vestito della sua nonna. Si metteva il fazzoletto in testa e faceva la vecchietta.
I miei genitori festeggiavano il Carnevale come noi, solo che prima facevano le sfilate.


Elena N.

Per i miei nonni, come per noi bambini, è stato sempre fonte di divertimento il carnevale.
Quando i miei nonni erano piccoli, il carnevale veniva festeggiato il giovedì, la domenica e il martedì grasso. In particolare quest'ultimo giorno, oltre ai bambini partecipavano anche gli adulti, mascherandosi, suonando e ballando fino a tarda notte.
Infatti in questo giorno non si lavorava.
Le loro maschere, però, erano diverse dalle nostre, non avevano niente di sofisticato o costoso, erano molto originali.
Per me il carnevale è allegria per tanti bambini però soprattutto per i vestiti che indossiamo nel nostro corpo che sono uno più bello dell'altro. E la festa che facciamo a scuola è lo stesso bellissima.

Gianfranco M.

I miei nonni non avevano vestiti di carnevale perché non avevano soldi, allora mio nonno si vestiva da uomo con i vestiti del suo papà e mia nonna con i vestiti della sua mamma.
Dopo si incontravano con gli altri bambini e andavano nelle case a cercare le frittelle cantando le canzoni.


Valerio S.

Quando la nonna mi aveva parlato dei vecchi costumi aveva detto che erano simili a quelli che indossiamo adesso. Il vestito più particolare era quello da damigella o da fata con il corpetto molto stretto e con la gonna molto larga.
Si portava una parrucca molto lunga, bionda e liscia.


Silvia S.

Al tempo dei miei nonni si andava dai sarti. I vestiti erano più divertenti.
Mia nonna si era vestita da uomo con i pantaloni e la giacca. Invece mio nonno si era vestito da donna con la gonna e la camicetta. Poi sono andati a fare scherzi buffi e poi hanno mangiato le frittelle. Poi hanno inventato una filastrocca.

Elisa M.

Mio padre si metteva, a carnevale, una mascherina di carta sul viso, un lenzuolo nero e un bastone di scopa e immaginava di essere Zorro.

Mamma si faceva fare dei vestiti di principessa da mia nonna.



IL CARNEVALE AD ITTIRI

Valeria M.

Anche ad Ittiri si festeggiava il Carnevale. Le bambine si mascheravano con le vecchie gonne delle nonne, e i maglioni vecchi delle mamme. I bambini indossavano le camicie e i maglioni del padre. Per coprire il viso i bambini prendevano del cartone bianco, ritagliavano il naso e la bocca, legavano lo spago intorno alla testa per tenere ferma la maschera. I bambini vestiti a maschera andavano di casa in casa e chiedevano le frittelle. Inoltre andavano in giro a fare scherzi, giocavano e facevano la gara a chi rompeva per primo la pentolaccia.
Le mamme si mascheravano con un vestito lungo e nero e non si facevano riconoscere. Di notte gli adulti andavano a ballare nelle case.
Un banditore dava il bando per le vie del paese e metteva attorno al collo le frittelle a ruota.


IL CARNEVALE A BOSA

Martina Pa.

Mia nonna mi ha raccontato che quando era bambina non c’erano tanti soldi per comperare i vestiti di carnevale come adesso, allora il giorno di martedì grasso si vestivano tutti di nero con gli abiti dei loro genitori o dei loro nonni.
Chi sapeva cucire si faceva il domino nero con il cappuccio. Poi le maschere andavano in giro a fare gli scherzi.
La notte si vestivano tutti di bianco tipo i fantasmi con le lenzuola e con delle lanterne accese andavano a cercare Giolzi (che vuol dire Re Giorgio).
Le mamme preparavano delle ceste piene di frittelle lunghe.



Disegno che raffigura mamuthone, boe e issohadore

IL CARNEVALE A PADRIA

Valerio N.

Nelle piazze dei paesi il giovedì grasso si organizza la favata che viene preparata con il lardo del maiale, e sas cattas che sono delle frittelle fatte con l'imbuto.
La gente andava a ballare mascherandosi con dei vestiti vecchi che trovava in casa. Per non farsi riconoscere le maschere si coprivano con un lenzuolo, oppure si mettevano un cappotto vecchio con il cappuccio, gli stivali, e si tingevano il viso di nero con un pezzo di sughero bruciato.



IL CARNEVALE A NUORO

Giovanni F.

I miei nonni quando festeggiavano il carnevale si vestivano con tanta roba vecchia e sporca, poi arrivavano maschere da lontano, per esempio mamutones e altri.
I miei nonni di Nuoro mi hanno detto che anche loro si vestivano con roba vecchia, però lì arrivavano più maschere.
Per esempio, arrivavano i mamutones; però allora non erano proprio una maschera, adesso sono diventati maschere.



IL CARNEVALE A FONNI


Michela E.


Il carnevale ai tempi di mia nonna a Fonni si festeggiava in modo più semplice senza tutte le maschere che ci sono adesso, da principessa, da Zorro e da strega.
Allora le maschere venivano fatte in casa dalle mamme con quello che potevano trovare perché non c'erano i soldi per comprare i vestiti e bastava poco per trasformare un vestito normale in una maschera con un velo, un cappello, un fiocco, uno scialle, un vecchio lenzuolo.
Non c'erano le feste o i coriandoli ma i bambini seguivano i grandi per le strade e dove si poteva ci si fermava a ballare e a mangiare le frittelle che a Fonni si chiamano cippulas e sono delle ciambelle coperte di miele.


Le maschere di Fonni

C'erano due tipi di maschere: sos buttudos bruttos, che erano degli uomini vestiti di nero con il cappuccio e il viso tinto con la fuliggine del camino; inseguivano un'altra maschera, s'Ursu (l'Orso) che era un uomo coperto di pelli di pecora e con la maschera di cuoio. Queste maschere facevano un po' paura e i bambini scappavano.




C'erano anche sas mascheras limpias (le maschere pulite) che erano uomini, o donne o bambini vestiti da donna con dei grandi cappelli o una maschera di stoffa sul viso. Erano le maschere più belle e divertenti perché erano colorate e poi facevano ballare tutti.




Sas Mascheras Limpias

Alla fine del Carnevale si preparava un pupazzo, su Ceommo, che dentro aveva una botte di vino e veniva portato in giro per il paese.
Ogni tanto si fermavano e facevano tutti finta di piangere per il pupazzo morto, ma poi bevevano e mangiavano frittelle.

Mio padre si metteva, a carnevale, una mascherina di carta sul viso, un lenzuolo nero e un bastone di scopa e immaginava di essere Zorro.
Mamma si faceva fare dei vestiti di principessa da mia nonna.




(Commento)
La serie delle maschere sarde del Nuorese ha connotazioni decisamente originali, e radicate nel substrato socio-economico della società pastorale isolana.
Lascio ad altri l'analisi delle origini e dei significati. Mi limito ad osservare che nel carnevale viene in luce lo stretto legame dell'uomo con il mondo della natura dal quale dipende la sua sopravvivenza. Il pastore, la filatrice, il bue, l'orso sono maschere che non suscitano ilarità ma piuttosto evidenziano il difficile rapporto con un territorio che esige fatica e sudore per elargire i suoi frutti. Sulla maschera dell'Orso c'è da ricordare che l'orso non vive in Sardegna. Qualcuno ha ipotizzato che l'animale appartenga a memorie tramandate nei millenni da genti venute in Sardegna nel Neolitico.
Ricordiamo che i paesi del Nuorese hanno mantenuto usi, costumi e tradizioni che negli altri territori sardi si sono trasformati profondamente a causa del contatto con altre culture. Non è inverosimile pensare che queste maschere provengano da tempi molto lontani anche se lentamente modificate e arricchite dalla naturale evoluzione di ogni attività umana. La loro suggestione sta proprio nella rappresentazione che esse offrono di tutto un mondo che appare lontano e allo stesso tempo è vivo e presente. Un mondo che non ci appartiene ma che ci urta con la sua prepotente realtà.

Il carnevale sardo ha svariati volti, come ha mostrato la ricerca dei bambini. 
Nelle città ci si mascherava alla meglio e poi si circolava per le strade o si andava a far visita nelle case di amici cercando di non farsi riconoscere. Si organizzavano i balli a teatro, ma anche nelle case o in locali improvvisati e si faceva baldoria.
A Bosa, a Tempio, a Cagliari venivano organizzate delle feste più articolate che potevano comprendere sfilate in costume, frittellate in piazza, rogo su cui bruciare il Carnevale, e altro.
Ad Oristano si è mantenuta la tradizione della Sartiglia, e comunque ogni paese e ogni città ha un suo festeggiamento.

Gino Cabiddu ("Usi costumi riti tradizioni popolari della Trexenta" 1965) ci descrive il carnevale della Trexenta.
"Non mancava mai, per far ridere, la comica figura de sa viudedda  e de sa mamm'e tita (la balia). Si ballava nelle piazze e nelle case del paese al suono delle launeddas, si mangiavano le zippulas e i brugnolus coperti di miele e zucchero, si beveva vino.
Il ballo era sempre quello sardo perché i balli zivilis o continentalis erano ballati da pochissimi o erano sconosciuti.
In occasione del carnevale  signoriccus, signoriccas, meris e merixeddus (signori, signore, padroni e padroncini) fraternizzavano con i popolani.

L'ultima notte di Carnevale si celebrava su carnevali motu (il carnevale morto). Il carnevale, rappresentato da un buffo fantoccio, si bruciava in una piazza del paese tra allegre risate e grida festose di: - Es motu carciofali, carciofà ... carciofà ... es motu carnovali, carnovà, binu niedd'e bonu, niedd'e bo' ...
Era il giorno de segai is pingiadas (la pentolaccia) e talvolta nella pentola si mettevano anche topolini vivi così che quando la pentola veniva rotta molti scappavano e non prendevano i dolciumi che erano zippulas, brugnolus, caschetas, meraviglias (chiacchiere), gueffus (sospiri), candelaus.


   Is candelaus

Nella città di Cagliari antica si mangiavano zippulas, brugnolus, caschetas, meraviglias e si beveva buon vino.
Tra le maschere spiccava sa dida (la balia). I giovanotti si riempivano il petto e mostravano enormi seni che porgevano a pupazzetti fatti di crusca e stracci.

Gino Cabiddu riporta altre usanze come Su ballu e canzoni de muncadori (Il ballo e canzone del fazzoletto). Una bella picciocca (ragazza) veniva legata ad una sedia con un grande muncadori legato fra il braccio e la spalliera della sedia. Per poterla sciogliere un giovanotto doveva cantarle una canzone e così otteneva un ballo dalla fanciulla. La canzone (o muttettu) era un po' sentimentale e un po' satirica e non veniva cantata sempre nello stesso modo. 

Nota: Ad Alghero le frittelle sono denominate brignols, e nella Trexenta sono denominate brugnolus. Anche le caschetas sono un dolce che si usa ad Alghero, ma in altre occasioni. In logudorese le caschetas sono chiamate tiriccas.



2. LA  SARTIGLIA


Prendendo spunto dalla conferenza che l'archeologo Raimondo Zucca ha tenuto ad Alghero il 6 febbraio 2015, vorrei fare alcune considerazioni di carattere antropologico sulla Sartiglia.

Il Componidori che è la figura centrale della Sartiglia, non può toccare terra dal momento in cui sale sul tavolo per essere vestito con gli indumenti prescritti dalla cerimonia fino a quando, terminata la sua funzione, riprende i suoi abiti.
Frazer analizza questo tabù in diverse culture. Dice che la vita dei re o sacerdoti divini era sottoposta ad alcuni tabù tra i quali il non toccare terra. Riporto le parole di Frazer (1).
"La prima regola, che vorrei sottolineare, è che il personaggio divino non può toccare la terra con i piedi. Questa norma valeva anche per il sommo pontefice degli Zapotechi, in Messico; se solo avesse toccato il suolo con i piedi, avrebbe profanato la propria santità. L'imperatore messicano Montezuma non pose mai piede a terra; era sempre portato a spalla dai nobili; se doveva camminare, lo faceva solo su ricchi tappeti. Per il Mikado del Giappone, calpestare la terra sarebbe stata una vergognosa degradazione; anzi, nel XVI sec. era sufficiente a privarlo della sua carica. Fuori dal palazzo era trasportato a spalla e all'interno camminava su stuoie riccamente lavorate."
Frazer fa un lungo elenco di regni dove vigeva questo tabù. Poi aggiunge che "oltre a quelle persone che sono permanentemente sacre o tabù, e che non possono quindi toccare il terreno con i piedi, ve ne sono altre che rivestono un carattere sacro o tabù solo  in determinate occasioni; e per le quali quindi, il divieto vale solamente in quei casi particolari, quando sono in odore di santità. Per esempio, presso i Kayan o Bahau del Borneo centrale, le sacerdotesse, durante determinati riti, non possono posare i piedi a terra e camminano quindi su assi di legno."
Ed ecco la spiegazione che dà Frazer: "Secondo la filosofia dei primitivi quell'apparente santità, quella magica virtù, quel tabù, o comunque lo vogliamo chiamare, quella misteriosa qualità che si presume pervada gli individui sacri, è una sostanza o fluido di cui l'individuo è carico, proprio come una bottiglia di Leida è carica di  elettricità; e, proprio come nella pentola l'elettricità viene scaricata a contatto con un buon conduttore, così la santità o la magica virtù dell'uomo, si può scaricare ed esaurire venendo a contatto con il suolo che, sempre secondo la mente primitiva, è un ottimo conduttore di fluido magico."

Evidentemente Frazer non conosceva la Sartiglia altrimenti l'avrebbe citata.
Seguendo le sue considerazioni si arriva a concludere che il Componidori non può toccare terra perché per un giorno è considerato sacro e non deve perdere il suo fluido magico attraverso la terra. Trovo soddisfacente questa spiegazione. C'è chi vede nel tabù di toccare la terra il pericolo che la persona si contamini. Anche questa può essere una motivazione plausibile pur se trovo più convincente la spiegazione che dà Frazer.

Mi rimane da risolvere il significato della "pippia de maju". La Sartiglia è organizzata da due gremi, uno dei quali è quello dei contadini che fa riferimento a San Giovanni (suppongo il Battista). San Giovanni Battista è al centro del culto del solstizio d'estate che si perde nelle più remote antichità e che in Sardegna prevede, tra l'altro, la confezione di una bambolina da mettere nel nenniri. Da qui a giungere alla pervinca, alla viola e al mese di maggio ci sono evidentemente altri passaggi da chiarire.

L'uso di fare bamboline o fantocci con vegetali era molto diffuso nelle civiltà contadine. Nel XLV capitolo "La Madre e la Vergine del grano nel Nord Europa" (2)  Frazer fa un lunghissimo elenco di luoghi dove con l'ultimo grano mietuto si fa un fantoccio. Tra le tante descrizioni che lui fa riporto la seguente.
"In alcune località della Scozia e dell'Inghilterra settentrionale, l'ultimo grano mietuto era chiamato kirn, e colui che lo portava via si diceva che aveva vinto il kirn. Lo si abbigliava poi come una bambola, cui si dava il nome di kirn-baby, bambola kirn o la Fanciulla."
Da tutto ciò che Frazer dice nel corso del capitolo si capisce che l'ultimo grano mietuto nel campo ha un potere di fecondità e prosperità per l'anno a venire.
Ma sa Pippia de Maju si fa con viole e pervinche, e non con il grano. Tuttavia si tratta sempre di un oggetto ricavato da vegetali.

Passiamo adesso al maggio.

Per qual motivo si nomina il mese di maggio e non un altro mese? Perché  sa Pippia è di maggio?
Voglio precisare qui che in sardo il termine pippia indica sia la bambina che la bambola.

Vediamo il paragrafo n° 2, "Poteri benefici degli spiriti degli alberi" nel capitolo IX  "Il culto degli Alberi"  de Il ramo d'oro di Frazer.
Nel corso del paragrafo (3) apprendiamo che la parola maggio nelle tradizioni popolari non indica soltanto il nome del mese ma viene associata a diverse pratiche e diventa un sostantivo, il maggio.
In Germania e in Francia il "maggio della mietitura" è un grosso ramo o un intero albero decorato di spighe che viene portato a casa sull'ultimo carro che rientra dal campo per essere legato sul tetto della fattoria o del fienile, dove rimane per un anno.  In Svezia, il "maggio della mietitura" viene infisso fra le ultime spighe lasciate sul campo; altrove, è piantato nel terreno e al suo tronco viene attaccato l'ultimo covone mietuto.
In alcune zone della Baviera le fronde di maggio si portano davanti alla casa di due sposi novelli, tranne quando la sposa sta per partorire; nel qual caso, si dice che il marito "ha già messo il maggio da sé"
Appare superfluo sottolineare il potere fecondante del "maggio" e la sua simbologia.

Il calendimaggio, cioè il primo giorno di maggio, era molto importante nelle feste popolari dell'Europa contadina, Italia compresa. Dappertutto si piantavano alberi o tronchi d'albero, si decoravano porte e cortili con fronde, si appendevano rami fioriti, si formavano mazzolini di fiori e ghirlande.
Frazer riporta una interessante tradizione dell'Essex:  il primo di maggio le bambine vanno di porta in porta cantando una canzoncina che parla di fiori e ghirlande e recano ghirlande al cui centro, in genere, è collocata una bambola vestita di bianco.
La vigilia di san Giovanni (il 23 giugno) a Stoccolma si tiene un mercato nel quale si vendono "i pali di maggio" decorati di foglie, fiori, carte colorate, gusci d'uovo dorati. Il palo di Maggio, il maypole anglosassone, ha dato origine all'albero della Cuccagna.

Lo spirito arboreo può avere forma sia umana sia vegetale. Il rappresentante umano dello spirito arboreo è a volte una bambola o un fantoccio, a volte una persona in carne ed ossa collocata accanto a un albero o a un cespuglio (pag. 156).

Frazer conclude dicendo che "I vari nomi - maggio, padre maggio, signora del maggio, regina del maggio - con i quali viene spesso indicato lo spirito antropomorfico della vegetazione, stanno ad indicare come la concezione di tale spirito si fonda con una personificazione della stagione in cui i suoi poteri si manifestano in maniera più spettacolare." (pag. 158).

Da quanto abbiamo visto in Frazer possiamo pensare che il mazzolino bifronte di viole e pervinche tenuto in mano dal Componidori deve il suo nome Pippia de Maju a vari riferimenti del mondo agricolo e al potere del "maggio" di portare abbondanza e fertilità dei campi.


Sa Pippia de Maju 
(Da "Sa Sartiglia di Oristano" di Giuseppe Pau, Ed Giovanni Corrias, 1984)

Certo rimangono ancora delle domande irrisolte: perché il mazzolino è bifronte? Perché la maschera che porta il Componidori è androgina?
Al momento posso pensare che la Sartiglia sia un insieme ormai indistinto di simbologie che si sono stratificate nei secoli e forse anche nei millenni visto che molto di ciò che attiene il mondo contadino ci arriva dal neolitico. Districare quell'insieme è un arduo compito che lascio agli antropologi.

Non condivido l'interpretazione della posizione del rematore che prende il Componidori. Qualcuno spiega che il Componidori esce dalla sala della vestizione coricato supino sul cavallo per raddrizzarsi una volta superata la porta perché muore come uomo e si rialza come semidio.
In primo luogo una persona morta a cavallo non ha certo la posizione rovesciata all'indietro, ma ha quella rannicchiata in avanti.
In secondo luogo i cavalieri sardi usano quella posizione a prescindere dalla Sartiglia. Sentiamo cosa scrive Gino Cabiddu (4) parlando dei vari palii che si corrono in Sardegna.
I cavalieri corrono "piegandosi indietro con le spalle, fino a mettere la nuca sulla groppa del cavallo arremendu, e cioè facendo come fa un rematore vogando in una barca".
In altre parole la posizione del rematore è una figura che fa parte delle acrobazie che i cavalieri sardi eseguono sui loro cavalli. Se poi si vogliono attribuire significati metaforici può andare bene quello citato, ma ricordiamo che su Componidori prende quella posizione anche durante la corsa. Quale significato vogliamo dare in quel caso?


(1) Il ramo d'oro di James Frazer Newton Compton Editori, 2010,pag. 657 e seg.
(2) Id.  pag. 454 e seg.
(3) Id. pag. 148 e seg. 
(4) Gino Cabiddu, Usi, costumi riti tradizioni popolari della Trexenta, Editrice Sarda Fossataro, Cagliari, 1956, pag.357.